I grandi marchi dimezzano i punti vendita. Affonda il 25% dei piccoli negozi al dettaglio, che salgono al 30% fuori dal centro. Arenate le trattative per il locali liberi. Appello di Confcommercio: «Servono liquidità, semplificazione normativa e moratoria fiscale».
Ci sono quattro scenari che complessivamente narrano lo stato di crisi dei negozi milanesi chiusi da due mesi per l’emergenza sanitaria in corso. E tracciano i lineamenti futuri di una città più povera di attività, movimento, luci, vita. A chi faticava nel far quadrare i conti già prima, pandemia e lockdown hanno dato il colpo di grazia definitivo accelerandone la chiusura. Altri stanno maturando l’addio all’attività senza aver ricevuto ancora, a 60 giorni dallo stop, alcun sostegno economico. I grossi gruppi (moda, banche, telefonia) con più punti vendita in città dimezzano la loro presenza. Infine la maggioranza: «I negozi che riapriranno il 18 maggio, ma con i tempi di disdetta per l’affitto o le trattative per la cessione dell’attività scompariranno tra settembre e gennaio 2020», dice Gabriel Meghnagi, presidente delle vie associative di Confcommercio Milano. Scenario, quest’ultimo, che interesserà in particolare le aziende più piccole, 15 mila nella provincia, di cui si stima che il 25 per cento rischi la chiusura: circa 3.700 imprese.
A queste quattro, va aggiunta una quinta circostanza: molti indirizzi sono stati chiusi prima dell’11 marzo, ma il lockdown ha bloccato di colpo la trattativa per la nuova gestione. Così nella città dove normalmente nel giro di 24 ore o di qualche giorno le insegne si susseguono, le vetrine sono rimaste cristallizzate in un’attesta indefinita.
I marchi che lasciano
La città che ha ricominciato il 4 maggio, con l’avvio della «Fase 2», a riconquistare pezzetti di libertà, è ancora a saracinesche abbassate. E in molte vie, al momento su quelle più grandi e calpestate per gli acquisti, sono già scomparse alcune insegne e apparsi avvisi di fine attività o di affitto locali. In Corso Buenos Aires tanti big dimezzeranno la loro presenza: Upim riaprirà al civico 21, non al 35. Stesso discorso per H&M, che ha annunciato la chiusura di due punti vendita a Milano, dei sette che chiuderà in Italia. Questione di scelte: nella zona centro, l’azienda di abbigliamento svedese ha deciso di tenere in vita l’insegna in Duomo e di chiudere quella in via Torino; in Buenos Aires chiuderà il negozio «storico», il primo, ma meno importante come metratura.
In piazza Lima, la catena di ristoranti Spizzico aveva chiuso prima dell’11 marzo: si era giunti a una trattativa, poi arenata con lo stop di tutte le attività non essenziali. Stessa situazione per il negozio di abbigliamento Skermo al civico 42 di Buenos Aires: chiusure precedenti al lockdown, a cui il lockdown ha impedito un ricollocamento. Al 39 rimarrà chiusa Rebecca gioielli. Così come il marchio di abbigliamento Desigual al 29 e Marina Militare al 14. Al 64, il corso saluterà presto anche Conbipel, che ha portato i libri in tribunale.
Nel resto della città
Nelle vie limitrofe al corso e alle grandi arterie dello shopping, denuncia Meghnagi, «la percentuale di chiusura tra i piccoli potrebbe arrivare anche al 30%». Su corso Vittorio Emanuele al momento non vi sono ancora imminenti chiusure, «ma, con quei canoni di affitto, arriveranno nei prossimi mesi». Un altro dei luoghi simbolo dello shopping milanese, corso Vercelli, si risveglierà senza più alcuni dei marchi che la animavano. Qui Silvia Borse, la catena a gestione familiare di calzature, borse, valigie e articoli di pelletteria, pochi giorni prima del lockdown ha chiuso il suo ultimo punto vendita in città, al civico 11. Al 29 c’era una filiale della Banca Sella: spazi che saranno difficili da ricollocare. La storica boutique Gemelli ha chiuso e lo stop per pandemia ha lasciato i locali sfitti.
E ancora: chiusura definitiva per il negozio di pelletteria e borse High Class in corso Magenta 69. In via Torino, oltre ad H&M, saranno «almeno altre tre insegne a lasciare per sempre la strada», dice Meghnagi. Il negozio di abbigliamento che ha occupato il civico 21 per 40 anni, Marlboro Classic, ha ceduto a inizio marzo: «Troppe le spese rispetto alle entrate. Ci è andata bene: rischiavamo di rimanere intrappolati in questo lockdown», dice il titolare Vincenzo Ferraro.
Le misure necessarie
Da due mesi, Confcommercio attraverso il presidente Carlo Sangalli chiede al governo tre priorità per garantire la sopravvivenza delle imprese, spiega il segretario generale di Confcommercio Milano Lodi Monza e Brianza Marco Barbieri. «La prima è la necessità di indennizzi a fondo perso». Ad oggi, l’unica forma di aiuto è il finanziamento in banca garantito dallo Stato. «Si tratta di un finanziamento, dunque l’impresa dovrà restituire i soldi». Inoltre, non è facile ottenerlo: «Le banche hanno obblighi di rating di imprese. Se hai un finanziamento pregresso, per esempio, non sarà automatico riceverlo». E questo porta alla seconda richiesta: «Serve uno snellimento burocratico, una semplificazione normativa: non si possono, in situazioni di necessità, adottare misure pensate per una situazione di normalità». Cortocircuito evidenziato da un numero fra tutti: dei 123 mila impiegati nelle 23 mila imprese del commercio della provincia milanese ad oggi chiuse per effetto del Dpcm, per 43 mila è stata chiesta la cassa integrazione. Il 95% di loro non l’ha ancora ricevuta.
Infine, è necessaria «una moratoria fiscale: le tasse che si dovevano pagare a marzo sono semplicemente state spostate a giugno. Chiediamo che vengano completamente sospese almeno fino al 31 dicembre». Richiesta che Confcommercio fa anche a livello locale: «Il Comune di Milano al momento ha solo disposto la sospensione della tassa di occupazione del suolo pubblico per le nuove concessioni. Chiediamo che sia sospesa anche sulle attuali concessioni, stessa richiesta per la Tari, l’imposta di pubblicità, l’affitto e l’imposta di soggiorno. Capiamo le difficoltà anche dell’amministrazione comunale, ma ognuno, in un momento di straordinaria difficoltà, deve fare la sua parte».